La storia con cui Fenne Lily arriva a scrivere il suo secondo album dal titolo “Breach” è di per se tanto incredibile quanto straordinaria, ancor più alla luce di quello che sarebbe avvenuto da lì a poco.
L’album infatti trova genesi durante il suo periodo trascorso a Berlino in isolamento auto-forzato poco prima che arrivasse il lockdown dovuto al covid. L’isolamento quindi non è una novità per Fenne Lily al punto da dedicare un intero album di canzoni su questo argomento. La stessa Lily espone il concetto chiaramente “È un pò come scrivere una lettera e lasciarla in un libro che sai che tirerai fuori quando sarai triste, come un messaggio per te stesso in futuro”.
Un album che ci parla a cuore aperto delle proprie sensazioni e delle proprie debolezze che si pone continue domande su argomenti che spesso cerchiamo di nascondere a noi stessi perché troppo complessi da affrontare. Il tutto accompagnato dalla leggerezza dei sui ventitrè anni e da un tono quasi sarcastico e provocatorio che richiama le sue origini inglesi. Un carattere fuori dall’ordinario, ne è conferma la scelta del tutto singolare di utilizzare il proprio canale Instagram per pubblicare una serie di interviste con altri musicisti, registrate dalla sua vasca da bagno con il titolo di “Bath Time” .
L’album pensato a Berlino è stato poi registrato, per conto dell’etichetta Dead Oceans, ( la stessa di Phoebe Bridgers ) ai Narwhal Studios di Chicago con Brian Deck e da Steve Albini agli Electrical Audio, sempre a Chicago, regalando un sound elettrico e chitarristico del tutto nuovo e più rock rispetto alla classico british folk.
L’essenzialità acustica e la nostalgica voce di Lily la fanno da protagonisti in tracce come “Some Else’s trees, “I Nietzche“, ed “Ellitot“, ma è nella splendida “I Used To Hate My Body But Now I Just Hate You” che si raggiunge la vetta, un brano che racconta al meglio il conflitto tra il bisogno umano di connettersi emotivamente e l’avvilente spettacolo delle relazioni moderne, nel caso specifico quello di una storia iniziata su Tinder e naufragata nell’arco di pochi mesi ( I met you in November for a weekend/ I loved you by December like a fool/ You left me for a friend over the summer ) .
La parte più movimentata del lavoro è riassunta nel singolo “Solipsism“, un brano ai limiti del rock di stampo Lo-Fi, nato dopo aver visto un documentario sugli Stone Roses , con l’intento di “creare qualcosa che suonasse allegro, su qualcosa di veramente non allegro“.
La canzone affronta le ansie di una generazione guidata dai social media, “perché tutti condividono tutto e confrontano la propria vita con quella degli altri“. Altra traccia di assoluto valore è “Berlin” che la stessa Lily definisce come una bellissima dichiarazione che celebra il sentirsi a proprio agio da sola, il tutto per sua stessa ammissione influenzato dalla lettura di Just Kids di Patti Smith.
Il messaggio forte recapitato da questo album, risiede nella capacità di infrangere le proprie barriere mentali con tutte le implicazioni di imbarazzo, ribellione e fratture che questo ne comporta.
Se l’anno 2020, per forza di cose ci spinge a riflessioni interiori, la musica di Fenne Lily è il giusto sottofondo su cui spendere questo tempo.
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